+S gen (350)

Sono Pada dell’Iren ha detto il mio coetaneo, vestito tutto per bene, rasato, ben pettinato, con un profumo così forte da sfondarmi le narici- deve essere una specie di strategia di marketing sensoriale, ho pensato, qualcuno deve aver detto “ah dimenticavo, ragazzi, mettetevi un profumo deciso e STENDETELI TUTTI!”. Mi faccia vedere le sue bollette- mi ha detto. Sono Pada dell’Iren, mi faccia vedere le sue bollette. Non è questione di interesse, signora- ha detto- mi deve fare vedere le sue bollette. Sono Pada dell’Iren. Deve prendere il suo bonus luce e gas. Deve farmi vedere le sue bollette. Gliel’ho già detto chi sono. Sono Pada dell’Iren e lei mi deve fare vedere le bollette.

Signor Pada dell’Iren- ho detto infine io- lei ha un nome bellissimo, potrebbe essere benissimo il nome di una città “Pada dell’Iren”, non le sembra il nome di una città? Certo “Pada sull’Iren” sarebbe ancora…

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Ciao mondo!!

18 marzo 2015

Varrà anche per i Terry?

L'immigrata

Nasce oggi un nuovo fondamentale blog: l’immigrata! Non parleremo di permessi di soggiorno e di come fregare la polizia, mettiti l’anima in pace, caro amico immigrato come me. Parleremo dell’Italia, di questo grande paese che ci ospita, ci culla, ci coccola e ci dà 30 euro al giorno.

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La sensazione di avere un deja vu mi aveva accompagnato durante la breve coda affrontata fuori dal seggio. Avevo dato un’occhiata veloce ai cartelloni affissi fuori con la lunga lista dei nomi dei candidati. Nel frattempo il leggero strato di neve accumulatosi sul giubbotto si era sciolto e tramutato in un acqua.

All’ingresso nell’aula scolastica ho tirato fuori la carta d’identità, col solito dubbio che fosse scaduta, ma non lo era. L’ho porta alla scrutatrice assieme alla tessera elettorale, lei ha letto il mio nome e ha iniziato a cercarlo nel registro blu. Mi ero già accostato all’altro scrutatore, quello con le schede e le matite, allungando timidamente il braccio per facilitare la presa.
Ma la ragazza, trovato il mio cognome, è arrossita. Si è alzata ed è andata a consultarsi col presidente di seggio. In quel momento ho iniziato a sentirmi febbrilmente colpevole di qualcosa, e il mio corpo si è avvampato di calore.
Il presidente, con passo grave e solenne, si è avvicinato e mi ha chiamato per nome.
“Santini Amedeo?”.
“Presente”, ho risposto stupidamente, con la gola già secca.
“Lei ha già votato”.

Non so quanti secondi siano passati, non li ho contati. Ma da quel momento un fischio potente si è installato nel mio cervello senza soluzione di continuità. Ho provato a rispondere, tremando, “come ho già votato?”, ma non saprei se qualche suono sia uscito dalla mia bocca.

Senza sapere come mi sono ritrovato nell’auletta insegnanti della scuola, tra una torta alla crema mezza mangiata e una bottiglia di coca cola, assieme a due dei finanzieri che sorvegliano i seggi. Ero seduto a un tavolo con le mani sulla fronte e i gomiti appoggiati, in una sensazione di lieve abbandono, inconsciamente convinto di essere in stato di fermo.

I finanziari mi guardavano immobili. Cos’avrei dovuto fare? Mi è sembrato naturale provare a giustificarmi, pur non sapendo esattamente cosa avevo fatto. Così ho iniziato a parlare.
“Sono arrivato, ho parcheggiato, mi sono messo in coda per votare alla 5, come faccio sempre…”
“Ma lei ha già votato, immagino che sappia che non si può votare più di una volta a testa”.
“Ma io…sì, certo.”
Più ci pensavo e più mi sembrava palese il fatto di essere colpevole. La mia tessera elettorale, avevano verificato, era già stata timbrata. Nel registro il mio nome era già stato registrato, secondo gli scrutatori almeno quattro ore prima.

Ricordo, sì, che stamattina ero molto agitato. In realtà erano diversi giorni che ero molto agitato. Stanotte non ho dormito, completamente assorbito dalla mia ossessione.
Non potevo pensarci. Trentacinque anni, decine di elezioni e un problema diventato sempre più imbarazzante.
Ricordo bene la prima volta che ho votato, il ritorno a casa, il pranzo domenicale, poi gli scrutini e quelle facce. Le facce incredule, le facce tronfie, le risate esaltate del conduttore di quel telegiornale.

Ho passato quasi due decenni a chiedermi come fosse possibile, come tutto ciò fosse  possibile. Nei momenti più lontani dalle elezioni riuscivo quasi a essere rilassato, ma poi, soprattutto negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi della campagna elettorale diventavo sempre più schivo e chiuso, meticoloso e maniacale. Facevo fatica a confrontarmi con altre persone per paura delle loro affermazioni e dei loro giudizi. E poi, vicino alla data del voto, si impossessava di me un’atavica paura di sbagliare, di dimenticare, di fallire il voto.
Non so se ci avete mai pensato, ma quando ti danno la scheda in mano, da quel momento, tutto può andare storto. Se la matita tocca la scheda mentre cammini verso la cabina puoi lasciare un segno e avere una scheda già nulla fra le mani. Se la bagni, se ti si strappa, se cadi, se svieni. Una volta uno nel mio seggio è morto mentre votava. Giuro, è morto nella cabina appeso al ripiano di ferro.
E poi quando la apri, con quel profumo aspro di carta copiativa: tanti simboli, alcuni molto simili tra loro. Ecco, quello è il momento di massimo panico.
Ho paura di non riuscire a fare il segno dove vorrei. Ho paura che possa succedere.

“No, non può essere successo” ho urlato improvvisamente davanti ai finanzieri.
“Che cosa?” ha chiesto allarmato uno di loro. Sentivo il suo forte profumo di dopobarba.
“Santini, ci racconti tutto”. Ha detto l’altro calmo e con tono paterno.
Allora sono scoppiato a piangere e, tra le lacrime e i singhiozzi, una realtà spaventosa ha iniziato a schiarirmisi sulla faccia.

Avete presente quando a scuola eravate agitatissimi per l’interrogazione di fisica e imploravate Dio o il fato che non vi chiedesse l’unica cosa che proprio non avevate capito? “Fa che non mi chieda il secondo principio della termodinamica, ti prego, fa che non mi chieda l’entropia”.
Passavate tanto tempo a pregare che non vi chiedesse l’entropia che magari avreste fatto in tempo a studiarla, però quella proprio non ci entrava nella vostra testa.
Ma non si può nascondere le proprie paure quando sono così forti che parlano da dietro i vostri occhi. “Santini, cosa dice il secondo principio della termodinamica?”.
Se non era la prof. a chiederlo, indovinando tra le vostre paure, eravate voi stessi a costituirvi, facendovi scappare freudianamente la parola entropia, o principio, o termodinamica, perché in fondo nella vostra testa c’erano solo quelle tre parole, un tabù troppo scandaloso per non tornare fuori. “Ah ecco Santini, parlami dell’entropia”. E voi non vi capacitavate del perché, pur sapendo che non dovevate pronunciare quelle parole, le avevate dette.

“Stamattina mi sono alzato prestissimo, ben tre ore prima dell’apertura dei seggi. Avevo temporeggiato a computer per non venire qui sembrando un maniaco. Avevo studiato la legge elettorale per la sessantesima volta e le modalità di voto. Solo una croce. Non scrivere niente.
Alle dieci circa mi sono presentato ai cancelli della scuola “Pitagora” di via Rossini, che è questa. Avevo aspettato il mio turno, venuto dopo una coppia di anziani. Mi sono state consegnate le schede e mi hanno indirizzato alla cabina numero due. Le ho stirate con cura…ho guardato i simboli ma…non riuscivo a leggere niente.
Gli occhi mi si incrociavano, i colori si mescolavano sullo sfondo verde e su quello rosa.
Poi qualcosa si è impossessato di me, è stato…è stato un lapsus, oppure un errore. La matita ha tracciato un segno dritto e orizzontale sul pallino blu con scritto Berlusconi.”
Un finanziere a quel punto si è alzato e ha bevuto un sorso di coca cola. Io ero una maschera rossa di pianto, ma non potevo più fermarmi.
“A quel punto sono andato nel panico, ha iniziato a girarmi la testa. Mi sentivo svenire. Ricordo di aver fatto un passo indietro, poi uno in avanti, muovendo freneticamente le dita dei piedi. Mi sono riavvicinato alla scheda e ho provato a cancellare il segno orizzontale con uno verticale. A quel punto avevo tracciato una croce. Sulla croce poi ho tracciato una ics, ma niente, stavo continuando a votare Berlusconi.
A quel punto ho pensato che da un momento all’altro sarebbe entrato il presidente di seggio a chiedere conto, oppure mio nonno, oppure Travaglio.
Nel panico più totale, non sapendo come fare, ho riappallottolato in fretta la scheda, separandola dall’altra, che ho lasciato bianca, e sono uscito.
Ostentando una specie di serenità ho barcollato fino al cartone e ci ho infilato dentro i fogli. Ho ripreso i documenti e sono uscito senza voltarmi, addirittura canticchiando eh Vendola Vendola, per non dare nell’occhio.
Dopo ricordo di aver passato mezz’ora al bar, sorseggiando un cappuccino. Poi sono tornato a casa e mi sono infilato sotto le coperte.
Quando mi sono svegliato probabilmente ho pensato che fosse stato solo un incubo, e il mio incoscio ha fatto il resto. Avevo rimosso tutto. Ora, vi prego, arrestatemi.”

Alla fine non avevamo niente da dire, ed è per quello che non dicevamo niente.
I nostri nonni non solo non erano tornati dalla Siberia, ma neanche ci erano andati. Al massimo avevano rubato della cioccolata ai tedeschi. O forse questi gliel’avevano regalata e loro s’erano inventati il resto.
Papà ha comprato la tv, poi ne ha comprata un’altra. Poi una macchina, poi ce l’hanno rubata. Poi pure mamma è andata a lavorare. E io giocavo a pallone in casa e ogni tanto per strada o alla scuola calcio.
Andava tutto così bene che non c’era mai niente di cui ci potessimo lamentare. Non ci potevamo permettere tutto, ma non c’era mai motivo di essere tristi davvero. Perché alla fine eravamo sospinti da quell’inerzia leggera del domani, di un modello, delle pubblicità, delle pareti che da parati gialli diventano muri bianchi verniciati bene. E l’entusiasmo magari è troppo, e ce lo tenevamo per qualche sceneggiata allo specchio, che rifletteva solo noi.
Mamma e papà allo specchio si guardavano ma noi non li vedevamo dentro il vetro, guardavamo la schiena. Avremmo visto la loro fatica, la tristezza del farsi andare bene le cose, la debolezza di un ideale da niente basato su un ideale di amore, tirato da ogni lato da istituzioni in frantumi. Il palazzo diventava vecchio, l’ascensore si guastava spesso, qualcuno se ne andava già.
Eppure tre quarti dei miei ricordi stanno lì dentro, in quel “tutto sommato” un po’ marrone e un po’ scuro, che però tutto sommato non mi fa vomitatre come ora.
Poi siamo un po’ cresciuti e abbiamo imparato a essere egoisti davvero, con consapevolezza. Ma senza pensare che quello fosse egoismo. Erano scarpe, catenine,  sigarette, orecchini.
Ci siamo abituati a obiettivi abbastanza difficili, però ogni tanto raggiungibili. E quando li raggiungevamo eravamo contenti, ma non troppo. Le colline erano abbastanza per contenere il nostro vagare, e la pianura non ci costringeva praticamente mai. Abbiamo imparato a sedurre, piano piano, e quello ha cambiato tutte le carte in tavola. Cioè abbiamo scoperto che non era quello il vero problema. Il motorino ormai stava senza benzina da un anno e con la sella tagliata. Avevamo una cosa sola di cui cantare: un’ideale da niente basato su un ideale di amore. Ma lo nascondevamo sotto i capelli e la critica politica.
Poi i nostri genitori sono diventati vecchi e neanche si chiudevano più in camera. Allora abbiamo guidato la macchina per ore fino al confine e talvolta persino oltre. Poi siamo tornati con la gola secca e tanta voglia di parlare, e più parlavamo e più ci veniva sete. Così abbiamo parlato per giorni, per giorni, per anni.
Ma alla fine non avevamo niente da dire, ed è per quello che non dicevamo niente.

Care cicalopecore, l’allineamento dei pianeti e di alcune costellazioni non vi regala un mese sereno. In particolare Saturno all’ombra di Urano si accanisce su di voi con un fastidioso prurito. Ma ho una notizia ancora peggiore: il senso di soffocamento, angoscia e indecisione che provate non è assolutamente dipendente dalle stelle.

Come succede più o meno tutti i mesi il vostro dedicarvi alle cose inutili si fonde con la paura delle conseguenze del vostro comportamento.

Ma come dobbiamo fare con voi, cicalopecore?

C’era la crisi e Tremonti si era dimesso, poi si era dimesso Berlusconi, vi hanno dato un anno e mezzo di governo tecnico per pensare cosa fare e voi? Proprio come quando eravate elle medie: due giorni prima dell’inizio della scuola vi decidevate a chiedere all’amico Formicoceronte quali compiti ci fossero da fare per l’estate. Ma era troppo tardi.

In quest’anno e mezzo potevate organizzare un nuovo partito, un movimento, una campagna, un coro lirico di musica ordossa, comprare delle schede elettorali truccate su ebay, diventare anarchici, far marcire delle uova, leggere tutto Gramsci e una sintesi illustrata del Capitale; potevate aprire un gruppo facebook dinamitardo, andare nel bosco a cercare tracce degli Anonymuos, emigrare in Islanda o almeno in Brasile.

E invece no, avete preferito e ritenuto più importante volta per volta dedicarvi all’amore, al lavoro, all’aperitivo, ai vestiti, agli occhiali, ai film, ai libri, alle mostre, al festival di Internazionale, ai concerti, al teatro, ai coltelli Miracle Blade, alle feste trash, al riposo, a Ballarò, all’Erasmus, alla buona e sacrosanta cucina mediterranea.

E adesso mancano due giorni all’inizio della scuola e vi state disperando in giro a chiedere agli altri “ma tu per chi voti?”.

Cicalopecore, la scuola niente v’ha insegnato. E ora questo fastidio quasi corporale che sentite non è altro che quel bruciore che si prova dopo che avete comprato una telecamera rubata all’autogrill e poi a casa si scopre che è di legno. Ma voi già lo sapevate all’autogrill che vi stavano fregando. Perché l’avete comprata?

Per venirvi incontro, perché è il nostro mestiere di astrologi, vi regaleremo un aneddoto.

Una volta un docente che stimo poco disse a un convegno sulla democrazia partecipativa che in fondo qualcuno le decisioni le deve prendere. E nessuno potrà mai sapere nell’intimità quali motivi muovono il decisore, che sia il calcolo o la coscienza.

L’affermazione mi fece rabbrividire. Ma ora, ripensando alla vostra condizione di cicalopecore che devono votare, la rivaluto: nessuno potrà dirvi se sia più giusto esercitare il vostro voto “in coscienza”, accettando quella specie di sacralità che la democrazia attribuisce alle elezioni, oppure “per calcolo”, attribuendo alle elezioni un valore puramente strumentale.

Rimanendo fermo il fatto che tanto non servirà a un gran che, dato che i formicoceronti hanno iniziato a fare i compiti molto prima di voi, fate almeno in modo che per una volta quest’esperienza vi sia da lezione.

Una volta ho preso un libro di fiabe africane perché dovevo preparare un’attività con dei ragazzi, e che siccome che so’ antropologo, ho preso un libro di una cultura “altra”. In realtà da bravo antopologo di merda non mi sono neanche chiesto se le fiabe fossero tramandate da un tempo antecendente o successivo alla colonizzazione. Ma tant’è, le ho lette.

Queste “fiabe”, per modo di dire, in realtà erano tremende, spaventose. Cioé tipo che se in africa sbagli una cosa sei fottuto. Ti staccano le braccia, le mani, ti mangiano gli occhi. Non è come da noi che poi a un certo punto c’è la pietà e si risolve a tarallucci e vino, e devi essere proprio cattivissimo per meritarti di morire. Gli animali sono un po’ meno imbecilli degli uomini, nelle fiabe africane, ma comunque anche per loro vale la stessa norma.

In Africa è come a New York con gli sfratti, one strike you’re out, uno scazzo e sei fuori, perché se ci abbiamo una tradizione che ti dice quello che devi fare e sei così stupido e antisociale da fare il contrario, ti meriti ogni male.

Alla fine le fiabe africane le ho lette e le ho lasciate lì, ché mica potevo traumatizzare i ragazzi. Troppo crude, pure un po’ allussive…beh capite cosa intendo.

Sono ritornato nel mio magico mondo delle fiabe da noi. Che poi alla fine le fiabe sono lo specchio della cultura. E da noi comunque alla fine si risolve tutto, quasi sempre con le buone. Quando sbagli fai del male sì, ma poi anche nel male c’è un po’ di bene. Comunque c’è la morale e questo è bene. Poi la volta dopo andrà meglio.

E io sono cresciuto così, un po’ di onore al merito che se fai il bravo poi c’è il kinder sorpresa, un po’ fatalista dove il fato rema comunque in senso positivo. Quando ci sono quelle cose che dici: dai ma che ingiustizia, ma che brutto, ma non si può, poi in qualche modo la sorte, che in fondo è coscienza collettiva, ristabilisce la giustizia, perché gli uomini imparano.

Questo imprinting poi mi si è trasmesso alla generica comprensione della storia. Certo, devo ammettere che potrei essere stato facilitato da uno straordinario periodo di pace nei confini dell’europa. Altrimenti magari sarei morto 7 anni fa al fronte…ma comunque: la storia tende al bene e nei periodi scuri come quelli da quando sono nato ad adesso, si sviluppano delle forze alternative, degli anticorpi montanelloidi, delle idee bellissime, che ristabiliscono la tendenza al bene. No?

Stamattina mi sono svegliato e ho pensato alle fiabe africane, e gli occhi mi si sono incupiti sotto le coperte. Ho acceso il telefono, e il telefono si è connesso a internet, e io mi sono connesso alle cose che riguardano la politica e in particolare quella italiana. E ora ho avuto la visione: allargavo con la dita la parte visibile della linea del tempo che ci riguarda, come aprendo un sipario su un palcoscenico molto più grande, e si vedeva molto più chiaro: nessun miglioramento, nessuna compensazione. One strike, you’re out.
Chi l’ha detto che poi migliora? Chi l’ha detto che non si può andare sempre più in basso? Chi l’ha detto che poi a un certo punto eh..vedrai che a un certo punto la gente si incazza e…? E cosa?

E un ippopotamo particolarmente vendicativo ci sbranerà senza mangiarci, come fanno gli ippopotami. Poi a mangiarci ci pensaranno gli sciacalli, che tanto hanno già iniziato.

Una volta alle scuole superiori ci dissero che avremmo partecipato a una giornata di formazione. Ci portarono in un’altra scuola insieme a tante classi e ci fecero dividere in gruppi. Lo scopo di ogni gruppo sarebbe stato immaginare una forma di impresa. Un esperto formatore di imprenditori l’avrebbe successivamente analizzata e criticata.

Il mio gruppo non aveva molta voglia di lavorare e, essendo formato solo da ragazzi, perdemmo parte del tempo a “slumare” (scrutare) le ragazze delle magistrali.

Ad un certo punto però decisi di prendere in mano la situazione e proposi la mia idea: realizzare una specie di caffé letterario che comprendesse uno spazio culturale un po’ chic e uno spazio culinario gestito da una coperativa sociale, in modo che potessero lavorarvi persone socialmente svantaggiate.

La mia idea riuscì a convincere gli altri membri, subendo solo qualche aggiustamento di carattere estetico che non ricordo di preciso, e integrando nel progetto una sala prove.

Credevo come sempre di avere avuto un’idea bellissima, ma non ero sicuro che avrebbe riscosso l’entusiasmo dell’assemblea e del formatore: così proposi un altro per l’esposizione, per tutelarmi da un’eventuale figuraccia.

Accadde infatti che il forma-imprenditori derise con gusto il progetto, sostenendo con un eufemismo che come imprenditori ci saremmo accontentati di poco. Il nostro poteva essere al massimo un progetto no-profit.

Capii allora, grazie a questa splendida giornata offerta dal liceo scientifico Rambaldi-Valeriani, che l’impresa non è quando realizzi qualcosa che ti piace, ma quando realizzi qualcosa che ti fa diventare ricco.

Successivamente, all’università, ebbi modo di sperimentare questo cambio di prospettiva: un mio amico era davvero squattrinato e affamato, ed io volevo aiutarlo. Decisi allora di andare a fare la spesa per fargli cucinare qualcosa a casa sua, visto che lui, a differenza mia, era un gran cuoco. Spesi 4 euro. Siccome non aveva neanche gli attrezzi da cucina li portai da casa. Cucinò un chilo di ottima pasta, con la quale ci saziammo. Avanzavano però 800 grammi. Decisi così di vendere 6 piatti da circa 120g ai suoi coinquilini e i loro amici, che erano appena tornati da lezione. Con la modica cifra di 1.50 comprarono un piatto a testa. Siccome avevo fatto io la spesa e gli arnesi erano i miei, mi sembrò giusto trattenere tutti i 9 euro ricavati. Avevo così guadagnato 5 euro ed avevo anche fatto l’opera di bene di sfamare il mio amico, oltre a vendere la pasta a un prezzo ragionevole. Questo è fare impresa, in più socialmente utile.

Ecco, per il duemilatredici Leone ti suggerisco due buoni propositi: il primo è smetterla di delegare ad altri la responsabilità delle tue pessime idee. Abbi il coraggio di esporti. Il secondo è dare alle cose il proprio giusto nome, non confondendo il no-profit con qualcosa che invece si chiama CAPITALISMO.

L’altro giorno mia mamma ha detto: mi sembra esagerato che Sallusti debba andare in galera.

Io le ho chiesto: perché?

E lei ha risposto: perché comunque tutti i giornalisti, anche delle altre testate, hanno detto che è una pena esagerata per questo reato.

E io: mamma qual è il reato?

Lei non ha saputo rispondere esattamente. E lì ho iniziato a provare davvero rabbia e ho capito istintivamente che Sallusti deve andare in galera. (MOTIVO 1 – PERCHE’ Sì)

Onestamente trovavo il caso Sallusti il caso meno interessante della settimana, o forse dell’anno. Ma poche ore prima di questa discussione avevo letto questo post di valigia blu, nel quale si spiega che il reato non è “d’opinione”, come tutti cercano di far credere a mia madre, bensì di diffamazione con chiara inadempienza delle leggi che regolano il comportamente giornalistico, che è tutt’altra cosa.

Ma non è per il reato che prevede come pena la galera che Sallusti deve andare in galera.

Sallusti deve andarci per un motivo molto più semplice, e il motivo è questo: più importante dei reati che può aver connesso e dei modi di punirli è per me un principio: l’uguaglianza. (MOTIVO 2 – FANCULO DEVI ANDARE IN GALERA PURE TU)

Nella frase LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI non mi interessa tanto qui il modo in cui si può svolgere il primo sostantivo. La legge può essere sbagliata, può essere ingiusta, può essere opprimente. La galera non è una misura correttiva né deterrente, la galera è controllo, potere, quello che volete. Non mi interessa. Nei miei principi è l’uguaglianza a venire prima.

Pertanto trovo tremendamente ingiusto dover discutere dell’eccezione che dovrà far cambiare la norma. La legge dovrà cambiare non perché non va bene, ma per non fare andare Sallusti in galera, il quale ha sempre agito nella consapevolezza che tanto mai ci sarebbe andato.

A nessuno viene in mente di cambiare la legge sul possesso di hashish quando un tunisino va in galera per spaccio. Il presidente non si scompone, il ministro men che meno. (MOTIVO 3 – PERCHE’ E’ PIU’ IMPORTANTE SOTTRARRE IL CONTROLLO DELLO SPACCIO ALLE MAFIE, NON ABBIAMO TEMPO PER SALLUSTI)

Allora facciamo una bella cosa: Sallusti va in galera, adesso. Poi quando dopo aver discusso di tutti i reati per i quali è ingiusto andare in galera o aver deciso di abolire la detenzione verrà il turno di Sallusti, apriremo anche la sua cella.

Manto erboso è una locuzione da radio cronaca. Io adoro la radiocronaca, in particolare quella della RAI, perché ancora vi sussiste una certa cura del linguaggio. Tutto il calcio minuto per minuto sembra un rituale tramite il quale viene custodito e tramandato un italiano ricco e antico, nonché impregnato di storia calcistica.

Ieri sera mi trovavo in stazione a Bologna quando alle 20,35 il lungo attacco di trombone decretava l’inizio della trasmissione. Il giro di basso della sigla mi fa sempre vibrare i muscoli come se stessi scaldandomi a bordo campo, trasformando la tensione in agonismo. Officiante, da studio, Filippo Corsini.

Per il secondo giro dai campi la linea passa all’inviato da Napoli, che subito dopo aver letto le formazioni spiega che il campo del San Paolo è da definire “un caso”. Non ricordo se durante la radiocronaca, nel consueto utilizzo di sinonimi che la rende disciplina aulica, si sia spinto a definirlo manto erboso. In ogni caso di erboso al San Paolo ieri c’era proprio poco.

Così poche che oggi, mentre aspetto che la concentrazione per studiare si transustanzi nel mio corpo, leggo tante dichiarazioni riguardanti il manto suddetto: “uno scandalo, un campo da beach soccer, non si può giocare in queste condizioni”.

Eppure quando sono tornato a casa per il secondo tempo e ho potuto vedere lo scempio coi miei occhi, ho trovato la scena incredibilmente romantica. Campioni in mezzo alla terra, passaggi traballanti su cumuli di erba secca, nuvole di sabbia che si alzavano col pallone.

Tutto questo mi avvicinava ai calciatori fino a quel piccolissimo punto di tangenza tra la mia vita e la loro. Pensavo alla nostra infanzia, a quando giocavamo per strada o nei cortili, sperando che non passassero macchine e che la signora non buttasse le secchiate d’acqua dal balcone. A quando giocavamo nel campo ufficiale in terra battuta ad Angri, perché quello della scuola calcio era di cemento. A quando ad Agerola era sottozero e i tacchetti spaccavano lastre di ghiaccio. A quando mi sono trasferito al nord e il campo era di erba, e io dicevo ai miei amici rimasti al sud che ci si potevano fare le rovesciate. E chissà poi dove avranno giocato Zuniga e Cuadrado in Colombia, Cavani in Uruguay o Jovetic in Montenegro. Come faceva ad insinuare il telecronista che per loro fosse difficile giocare in quelle condizioni?

Oggi si sprecano commenti indignati sulle condizioni del San Paolo. Per carità, sono legittimi, soprattutto se chi parla viene pagato per farlo e quindi di qualcosa deve parlare. Ma per favore, non dite che “non si può giocare a calcio in queste condizioni” perché il calcio è per definizione quel gioco che hai così tanta voglia di giocare che ti basta una palla fatta di qualsiasi cosa che rimbalzi su una superficie qualsiasi.

Il futuro dell’Italia

16 giugno 2012

Sole sul tetto dei palazzi in decostruzione, alla periferia del centro e all’estrema periferia dell’epicentro, sole che batte sul campo di pallone.

Mi sono steso qui in questo parco perché è stato il primo che ho trovato. Ero stremato.

Hossein sta in porta tra due alberi e fa la telecronaca. Si rivolge ai signori spettatori, ma ci siamo solo io e un signore cinese che boccheggia d’afa sotto un monumento, mentre i bengalesi giocano a carte disinteressati. Signori spettatori dice, gli attaccanti si scambiano il pallone in velocità. Livio ha la maglietta gialla, e all’occorrenza è Shevchenko o Ibrahimovic, mentre Hossein è Abbiati, stranamente presente a questi Europei, e vola a cercare i tiri angolati.

Mi sono steso qui perché era l’unica cosa che avevo voglia di fare dopo la manifestazione. Perché avevo bisogno di togliermi la maglietta e sentire il sole bagnarmi in silenzio. Sono stanco.

Dino sarà alto un metro e venticinque, però si coordina che sembra un uomo; ha la maglia azzurra e un collo-pieno stupefacente. Non dice quasi niente, lui vuole solo giocare. Raccoglie gli assist vellutati di Livio e la butta dentro. Poi arriva Fabian, che è grasso. Hossain gli chiede subito se vuole stare in porta. Certe cose non cambiano mai.

Sono stanco di vedere poliziotti che chiudono zone rosse, di vedere caschi, manganelli e armi da fuoco. Mi angosciano, mi debilitano.
C’è la festa di Repubblica. File di persone in coda per ascoltare gente che ascoltano ogni giorno. Gente il cui mestiere è far credere; far credere ciò che le persone sono disposte a credere. Come in una messa perenne.

Sono stanco delle manifestazioni sempre uguali, che sai dall’inizio cosa succederà. Perché certe cose non cambiano mai. Costruiamo la nostra identità in opposizione a qualcun altro che passa di là per caso; manifestiamo contro Repubblica per fare in modo di vederci in prima pagina domani quando compreremo Repubblica. Passamontagna, sciarpe, petardi, bandiere; megafoni atonali che gridano andiamo avanti, quando avanti ci sono solo dei blindati inamovibili;  presidenti del consiglio anziani intervistati da anziani che dentro l’Arena del Sole dicono andiamo avanti. Scriviamo il futuro dell’Italia.

Chang passa in bicicletta e saluta con accento bolognese. Hossain ricambia con accento bolognese. Livio ride. Ci sono cinque o sei bambini che vengono da almeno cinque posti diversi e parlano la stessa lingua. Ma anche se non parlassero la lingua sarebbe la stessa: passa, scatta, tira, para, gioca, segna.

Il sole scende lento sui tetti dei palazzi in costruzione, mentre L’Arena del Sole dentro e fuori è già buia da un pezzo. Buia di bastardi, bugiardi, arrivisti, servi. Buia di giocatori tristi che non hanno vinto mai, ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro, e a quest’ora ormai ridono dentro un bar.

Dino si alza la palla con le mani, salta in rovesciata e tira. Abbiati in ritardo dice il telecronista colpevole, ed è fuori! Ma non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia.

Nel parco della periferia, all’estrema periferia dell’epicentro, c’è un ponte fatto a rettangoli arcobaleno, che sembrano gli sponsor a bordo campo. Il bordo dell’unico campo dove ho visto scrivere veramente un po’ del futuro dell’Italia.